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Intervista a Keiko Ando – Mostra “Samurai”- 2009

  • Come può una discendente di Samurai come lei, signora Keiko Ando, vivere in Italia?
  • Le culture s’incontrano, dialogano. Anche la vostra arte di arrangiarsi è un’importante filosofia di vita.
  • Ma i precetti d’impareggiabile moralità dettati nel ‘600 da Jacho Yamamoto nel libro segreto dei Samurai, lo “Hagakure”, saranno sempre anacronistici nella nostra società.
  • No, quelle pagine aspre possono essere per tutti stimolanti, appassionate. Così come le ha rilette, nel ‘900, il nostro grande scrittore Yukio Mishima ne “La via del Samurai”. Fuori dalla struttura feudale, dove si è affermata storicamente la figura del guerriero, vale sempre la sua saggezza, che è soprattutto comprensione dell’umana natura.
  • Nell’ordinata gerarchia del Giappone feudale, che posto aveva la sua famiglia?
  • Sottoposta a un Daimyo, il capo-clan di un parte della regione di Tokyo, a sua volta al servizio dello shogun, il governatore del Paese. All’imperatore spettava, più che altro, un ruolo sacerdotale.
  • Dove ha misurato la profondità della sua tradizione?
  • Quando hanno aperto il sepolcro di famiglia, per dare sepoltura a mio padre, nel 1976. Una lastra con iscrizioni quasi illeggibili. Una tomba profonda tre metri. Tutte le urne degli antenati disposte armoniosamente, alcune ancora ricoperte di seta, “C’è ancora spazio…” ha commentato mio fratello con una battuta.
  • Non rinunciate all’eleganza, neppure nella morte.
  • Lo spiega bene “Departures”, che ha appena vinto l’Oscar come miglior film straniero. La via del Samurai, si dice, è la morte. Perché la vita dura solo un’istante. Meditare su questo ci rasserena. Da quando avevo otto anni, il mio maestro Zen mi ha educata a sentirmi una goccia del grande mare, in comunione con l’universo.
  • E gli occidentali dove possono trovare tanta serenità?
  • Sbagliatissimo isolarsi su una montagna. La meditazione non è una disciplina egocentrica. Noi la pratichiamo a Milano, nel Centro di Cultura Giapponese di via Lovanio, che dirigo con mio marito, un italiano. I principi sono gli stessi che mi impartiva mia nonna: migliora te stessa per migliorare il mondo.
  • Amore e morte. In che rapporto stanno per un giapponese?
  • In una poesia, il samurai canta: ” Morirò per il mio amore. La verità la saprai solo dal fumo, che aleggia … il nome del mio amore, fino all’ultimo segreto.” La forma più elegante dell’amore. Se è esternato e condiviso, sminuisce. Se ne deduce che dietro a un grande Samurai, c’è sempre una grande donna.
  • Che non ama il gossip e non si limita a praticare l’Ikebana …
  • Anzi, smentiamo un luogo comune. L’Ikebana è un’arte virile. Recidere una foglia è un gesto da guerriero.
  • Quante cose in comune, nella letteratura. E se consideriamo l’evoluzione della cultura dei samurai nella contemporaneità?
  • In Giappone è rimasta nel senso di fedeltà e appartenenza alla ditta. Sì, mio padre non ha mai lasciato la società di cui è arrivato ad essere vice-presidente. Sarebbe inimmaginabile, almeno ancora per la mia generazione, porsi al servizio di un’altra azienda.